Nel dibattito costituzionale raccontato da Erodoto, Otane dice che gli sembra opportuno che nessuno divenga più nostro monarca- ejmoi, dokevei e[na me;n hJmevwn mouvnarcon mhkevti genevsqai (III, 80, 2).
Questo mouvnarco" di fatto è un tiranno. A costui l’u{briς deriva dai beni presenti, mentre l’invidia gli è connaturata dall’origine: fqovnoς de; ajrch̃qen ejmfuvetai ajnqrwvpw/ (Storie, III, 80, 3)
Il re ha ogni malvagità (e[cei pa'san kakovthta, 80, 4) che compie per arroganza e invidia
Eppure il sovrano non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.
Invece invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toi'si kakivstoisi tw'n astw'n) ed è ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto, III, 80, 4).
Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio (14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80).
Ma torniamo a Otane di Erodoto (III, 80, 6)
La cosa più grave è questa: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. "Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[1].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio ( Serse nei Persiani di Eschilo, Creonte di Sofocle e di Euripide nelle Supplici).
Invece il governo del popolo ha il nome più bello, l’uguaglianza davanti alla legge: “plh̃qoς de; a[rcon prw̃ta me;n ou[noma pavntwn kavlliston e[cei, ijsonomivhn (6), poi esercita a sorte le magistrature (pavlw/ me;n ajrca;ς a[rcei ) e ha un potere soggetto a controllo (uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei) e presenta tutte le deliberazioni del consiglio all’assemblea pubblica (bouleuvmata de; pavnta ejς to; koino;n ajnafevrei).
I bouvleumata non sono khruvgmata, ordinanze, editti.
Otane dunque propone la democrazia, perché nella massa deve stare ogni potere.
Megabizo invece parlò in favore dell’oligarchia ( Erodoto, III, 81).
Questo altro nobile accetta la critica alla tirannide ma non l’elogio del popolo. Infatti dice non c’è niente di più stupido (oujdevn ejsti ajxunetwvteron, cfr. sunivhmi), né più prepotente ( uJbristovteron) di una moltitudine buona a nulla (oJmivlou ajcrhivou).
Il monarca è caratterizzato dall’ybris, il dh̃moς è sfrenato (ajkovlastoς)
La moltitudine non ha imparato niente da altri e non conosce da sé nulla di buono, e sconvolge lo Stato scagliandosi a[neu novou simile a un fiume invernale (ceimavrrw/ potamw̃/ i[keloς, 81, 2).
Per ultimo parlò Dario. Approva Megabizo sulla democrazia, lo confuta sull’oligarchia.
Secondo lui il sistema migliore è la monarchia anche se tw̃/ lovgw/, a parole sono ottime tutte e tre.
Non c’è niente di meglio di un uomo ottimo il quale con il suo senno (gnwvmh/, III, 82, 2) guida tutto il popolo ed è irreprensibile ajmwvmhtoς. Nell’oligarchia invece gli oligarchi giungono a grandi inimicizie, da cui nascono stragi, quindi si passa alla monarchia che così si rivela il regime migliore. Quando invece comanda il dh̃moς (dhvmou te au\ a[rcontoς, III, 82, 4) è impossibile che non sopravvenga la malvagità (ajduvnata mh; ouj kakovthta ejggivnesqai) e i malvagi instaurano tra loro filivai ijscuraiv, salde amicizie, poiché danneggiano gli interessi comuni cospirando tra loro.
Questo avviene finché li fa cessare uno che viene proclamato monarca. E ancora una volta si vede wJς hJ mounarcivh kravtiston.
Del resto per farla breve: a noi la libertà chi l’ha data?.
-kovqen hJmi'n hJ ejleuqerivh ejgevneto kai; teu' dovnto" ; (III, 82, 5) Non il popolo né l’oligarchia ma un monarca.
Cfr. il rispetto di Erodoto per le culture diverse
Manteniamo dunque la monarchia concluse Dario (III, 82, 5). Vennero dati questi 3 pareri e gli altri quattro nobili aderirono all’ultimo.
Otane che voleva dare ai Persiani l’isonomia, sconfitto, non volle entrare in lizza per diventare re siccome non voleva comandare né essere comandato: “ejgw; me;n nun uJmĩn oujk enagwnieũmai: ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2).
Ricordo di nuovo Bertolt Brecht che dopo Tiberio Gracco, nipote di Scipione l’Africano, e Friedrich Engels, figlio di un facoltoso industriale, ha raccolto questo messaggio di vera nobiltà
Infine sentiamo Bertolt Brecht:
“Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto, e mi hanno educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né essere servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
Con la gente del basso ceto”[2].
Bologna 27 novembre 2021 ore 19, 59
giovanni ghiselli
p. s.
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