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domenica 1 novembre 2020

Kafka, "Il processo". Capitolo XI. La fine

Dino Buzzati
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Argomenti

Due uomini muti vanno a prelevare K. Il buio del cielo e la luce dei bambini. L’uomo morente e il bambino nel romanzo di Buzzati Il desero dei Tartari. La vita come recita. Le mosche e la carta moschicida (Kafka e Musil). La luce della luna (Kafka, Apuleio e Leopardi). Le odiose cerimonie preliminari. Uno si affaccia a una finestra tendendo le braccia, chiunque egli sia, come nella preghiera dell’Agamennone di Eschilo[1]. Infine al condannato viene fatto girare un coltello nel cuore, più volte. Come un cane.

Di nuovo la prima tragedia della trilogia Orestea dove Ifigenia viene sacrificata divkan cimaivra~ (232), come una capra.


Alla vigilia del suo trentunesimo compleanno due individui pallidi e grassi si presentano a casa di K.

Josef K aveva l’atteggiamento di chi aspetta degli ospiti. Domandò ai due se fossero destinati a lui. Quelli annuirono senza parlare.

Erano muti come il destino che non parla ma significa.

Cfr. Eraclito:” il signore di cui c’è l’oracolo a Delfi, non dice né nasconde, ma significa - ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei (fr. 120 Diano)

 

K guardò fuori dalla finestra e vide tutto buio, tranne una luce che veniva da una finestra di fronte: dentro la stanza c’erano dei bambini che giocavano tendendo le manine uno verso l’altro.

 

I bambini

Nell’oscurità mortificante del mondo degli adulti moribondi, le luci vivificanti vengono dai bambini.

Cfr. N.T. Matteo 18, 3 - 4 : Amen dico vobis, nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum. Quicumque ergo humiliaverit se sicut parvulus iste, hic est maior in regno caelorum disse Cristo dopo indicando un fanciullo che aveva chiamato vicino a sé.

 

Nel romanzo di Buzzati Il deserto dei Tartari, il protagonista Giovanni Drogo passa la vita nell’ attesa vana della gloria, e nell’epilogo quando è malato a morte lo portano a morire in una locanda.

Quando vi giunge osserva una donna “seduta sulla soglia, intenta a lavorare di calza e ai suoi piedi dormiva, in una rustica culla, un bambino. Drogo guardò stupito quel sonno meraviglioso così diverso da quello degli uomini grandi, così delicato e profondo. Non erano ancora nati in quell’essere i torbidi sogni, la piccola anima navigava spensierata senza desideri o rimorsi per un’aria pura e quietissima. Drogo stette fermo a rimirare il bambino dormiente e un’acuta tristezza gli entrava nel cuore. Cercò di immaginare se stesso immerso nel sonno, singolare Drogo che mai egli aveva potuto conoscere. Si prospettò l’aspetto del proprio corpo, bestialmente assopito, scosso da oscuri affanni, il respiro greve, la bocca socchiusa e cadente. Eppure anche lui un giorno aveva dormito come quel bambino, anche lui era stato grazioso e innocente e forse un vecchio ufficiale malato si era fermato a guardarlo, con amaro stupore. Povero Drogo, si disse, e capiva come ciò fosse debole, ma dopo tutto egli era solo al mondo , e fuor che lui stesso nessun altro lo amava” (capitolo XXIX, pp. 243 - 244)

 

K pensò che gli avessero mandati attori vecchi, di secondo ordine.

Verso la fine della vita si capisce che essa è stata una farsa recitata da noi e da altri scambiandoci talora i ruoli.

 

Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die, fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti - e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite.

 

Epitteto: “ricorda che sei uJpokrith;" dravmato" ma non il regista. Tu devi recitare bene il ruolo assegnato e scelto da un altro (Manuale, 17).

 

I due boia prendono il condannato sottobraccio e lo stringono - e K vedendo la loro grossa pappagorgia pensò: “Saranno tenori”.

Quelli non allentavano la stretta e a K vennero in mente “le mosche quando strappandosi le zampine tentano di staccarsi dalla pania Faranno una bella fatica questi signori”. (p. 229)

Non è chiaro se alle zampine siano assimilate le proprie braccia o quelli dei due che lo conducono al patibolo.

 

Nel romanzo di Musil L’uomo senza qualità, c’è un’immagine simile quando Ulrich pensa: “tutto ciò che io credo di raggiungere mi raggiunge. Da giovani la vita ci si stende davanti come un mattino senza fine, colmo di possibilità e di nulla, poi ecco nel meriggio giunge qualche cosa che pretende già di essere vita e ci troviamo diversi da come ci eravamo immaginati. Qualcosa ha agito nei nostri confronti come la carta moschicida su una mosca: qui ha imprigionato un peluzzo, là ha bloccato un movimento, a poco a poco ci ha avviluppati e sepolti sotto un involucro spesso. La forma originale rimasta al di sotto tira e frulla e c’è la ribellione contro l’ordine e ci sono tentativi di fuga . Ma questo vuol dire che nulla di ciò che intraprendiamo da giovani è dettato da un’esigenza intima” (p. 124).

 

 K poi pensò che non faceva nulla di eroico se resisteva. Procurò loro della gioia e un poco ne povò anche lui.

K poteva ora scegliere la direzione e segue una ragazza che assomigliava molto alla signorina Bürstner

Pensò: “l’unica cosa che posso fare è conservare sino alla fine il raziocinio che inquadra tutto con calma. Questi due muti, privi di intelligenza mi hanno insegnato a dirmi da solo quanto mi occorre” (p. 230).

Cfr. la cattiva scuola e i suoi docenti peggiori che non danno agli allievi niente più dei manuali e li costringono a studiarli da soli, spesso a memoria

 

K si ferma a osservare da un ponte l’acqua luccicante e tremula alla luce della luna. 230

Incontrano un poliziotto e K si mise a correre. I due boia si diedero a correre con lui. Infatti costituiscono il destino e la sua series causarum che non ci lascia mai.

Giunsero fuori città, a una cava di pietre abbandonata e solitaria sotto una casa dall’aspetto ancora cittadino. Qui si fermarono. Il chiaro di luna illuminava ogni cosa con quella pacata naturalezza che solo la luna possiede (231).

 Si può pensare alla visione della luna da parte di Lucio - asino nell’ultimo capitolo del romanzo di Apuleio. Qui però K non prega.

La luna vede dall’alto e sa come stanno le cose.

 

Viene in mente la luna osservata da un pastore errante dell’Asia del Canto notturno di Leopardi: “ E tu certo comprendi - il perché delle cose, e vedi il frutto - del tacito, infinito andar del tempo” (60 - 72) .

“Ma tu per certo/giovinetta immortal, conosci il tutto” (98 - 99).

 

I due carnefici “si scambiarono alcune cortesie” per stabilire chi dovesse fare che cosa. Uno dei due comincia a spogliare K il quale rabbrividì. Poi piegò giacca, camicia e panciotto come se dovessero servire ancora. Quindi prese K sottobraccio e lo fece passeggiare perché non soffrisse troppo il freddo. Trovato il posto adatto, chiamò l’altro e i due fecero stendere K per terra. Gli fecero appoggiare la testa sopra un macigno. La posizione del condannato però rimase forzata e inverosimile. Uno dei boia estrasse un lungo sottile coltello a due tagli e ne esaminò il filo alla luce.

 

Seguirono “odiose cerimonie”

Questo “odiose” fa venire in mente il sacrificio di Ifigenia esecrato da Lucrezio come uno dei tanti orrori causati dalla superstizione - Tantum religio potuit suadere malorum” a crimini tanto grandi poté indurre la religio (De rerum natura, I, 1OI)

Si passavano l’un l’altro il coltello.

 

I carnefici possono simboleggiare le diverse malattie che prima o poi ci affosseranno.

 

K pensò di dovere usare a quei due la cortesia di pugnalarsi da solo. Pensiero del suicidio, il cupio dissolvi di K.

Non poté dare una buona prova togliendo ogni fatica all’autorità, ma la responsabilità di questo ultimo errore era di colui che gli aveva negato il resto dell’energia occorrente.

 Di nuovo l’ombra gettata sulla propria vita dal padre

K girò la testa verso l’ultimo piano della casa. “Si spalancarono le imposte di una finestra. Un uomo debole e sottile si sporse di colpo e tese le braccia. Chi era? Un amico? Un buon diavolo? Un sostenitore? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? Era ancora possibile ricevere aiuto? C’erano obiezioni dimenticate?

E’ il grande mistero della morte per noi mortali

Certo che c’erano obiezioni. La logica è bensì incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuol vivere” (p. 232)

 

 Ma K non voleva vivere. La vita è anche logos ma non è logica. Tanto meno la morte

 

C’è una speranza in queste ultime parole di K? 

La speranza non si compie mai e i boia lo uccidono.

Max Brod amico, poi editore e biografo di Kafka gli domandò: “c’è ancora speranza?”

Kafka sorrise: “Oh certo, molta speranza, infinita speranza; ma non per noi”. La speranza che fiorisce sempre di nuovo, poi sfiorisce sempre rende il mondo di Kafka tragico e disperato.

Cfr. Il vaso di Pandora: la speranza si trova nell’orcio tra i mali. La speranza è uno dei mali.

Kierkegaard: “si deve colpire a morte la speranza terrestre e solo allora ci si salva con la speranza vera”

 

Leggiamo le ultime parole: “dov’era il giudice che egli non aveva mai visto? Dove il supremo tribunale fino al quale non era mai arrivato? Alzò le mani e allargò le dita.

Ora le mani di uno dei signori si posarono sulla gola di K mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e ve lo girava due volte.

Con gli occhi prossimi a spegnersi K fece in tempo a vedere i signori che vicino al suo viso. Guancia contro guancia, osservavano l’esito.

“Come un cane!” disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere”

Come un cane o come una capra.

Cfr. Il sacrificio di Ifigenia Nell’Agamennone di Eschilo, il padre hJgemw;n oJ prevsbu~ (v. 185), il comandante anziano delle navi achee, per risparmiare il tempo che andava sciupato nell’attesa che si placassero i venti kakovscoloi (193), forieri di ozio cattivo, naw'n kai; peismavtwn ajfeidei'~ (195), sperperatori di navi e cordami, non osò diventare lipovnau~ (212), disertore della flotta e invece e[tla quth;r genevsqai qugatrov~ (224 - 225), osò divenire sacrificatore della figlia, la primogenita Ifigenia, che venne sollevata sull’altare divkan cimaivra~ (232), come una capra, imbavagliata per giunta affinché non potesse proferire maledizioni contro la casa

 

Fine del romanzo di Franz Kafka Il processo. 

Lo presenterò a Cento sabato 7 novembre 2020 dalle 17 alle 18, 30

Sala Artecento presso il Cine - teatro Don Zucchini di Cento.

 

Bologna, 31 ottobre 2020 ore 10, 5

giovanni ghiselli

 

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[1] Cfr. Eschilo, Agamennone, v. 160. E’ il canto del pavqei mavqo~ (v. 177)

 

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