Associazione Giovani Artisti Italiani, Erinni |
Argomento
La paura come prevenzione dell’anarchia viene
raccomandata tanto dalle Erinni quanto da Atena (ora va mantenuta quella nei
confronti del virus, N.d.R.)
Segue il Secondo Stasimo (vv. 490 - 565) con fosche previsioni
delle Erinni le quali sostengono che il terrore delle pene, umane e divine,
talora è salutare:"a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore anche delle anime e deve restarci a fare la
guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia - xumfevrei - swfronei`n
uJpo; stevnei "(vv. 517 - 519).
E’ il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v.
177) che ritorna in forma variata.
“La forma drammatica classica si regge su un principio: che la sofferenza
inevitabilmente connessa all’esistere (anzi: al voler essere la via
destinataci) conduca finalmente al mathos, a un ‘chiaro’ sapere”[1].
“Se, nonostante tutto, volessimo ricercare un messaggio che i poeti tragici
ci possano avere trasmesso, questo messaggio si potrebbe enunciare nelle
parole: “soffrire e conoscere”, oppure, con una formulazione che - forse
indebitamente - lascia intravedere una possibilità di riscatto, un non
appagante riscatto: “soffrire e però essere consapevoli della propria
sofferenza”.
Ma occorre essere attenti a cogliere la specificità di questo conoscere del
personaggio tragico. La qualità di questo conoscere tragico ha connotazioni
proprie e specifiche. E’ un conoscere turbato in quanto si rapporta di regola a
situazioni di sofferenza, o anche di contrasto; e inoltre può presupporre
profondità sinistre e recondite, in riferimento al mondo arcaico - primitivo
evocato attraverso il mito. La verità della tragedia greca non è la verità
della scienza (scienza della natura, scienza medica, registrazione e
valutazione di informazioni geografiche o storiche) e non trova in sé motivo di
compiacimento per avere acquisito nuova conoscenza. La verità che consegue
Edipo nell’Edipo re o Agaue nelle Baccanti è una
verità che dà sofferenza, è una “infelice verità” la cui presenza si rivela
molesta, come dice Cadmo parlando appunto con Agaue (Eur. Bacch.
1287, con una accorata allocuzione alla verità stessa)”[2]
.
Poco dopo le Erinni aggiungono: "mht j a[narkton bivon - mhvte
despotouvmenon - aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto" qeo;" - w[pasen" (Eumenidi, 526 - 530), non lodare una vita di anarchia né una
soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
“It looks to me as if the famous saying about the superiority of to; mevson - which Aeschylus put so oddly into the mouth of the Erinyes (530) - might
in fact be taken (…) as an honest and corrept
description of the author’s own position”[3], mi sembra che il famoso detto sulla superiorità del
“mezzo” che Eschilo mette così stranamente in bocca alle Erinni, potrebbe
essere di fatto venire preso ( …) come una onesta e corretta descrizione della
posizione personale dell’autore.
Più avanti la stessa Atena consiglia ai cittadini, che hanno cura
della città, di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j
a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare
del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha
nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n - tiv"
ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv.
698 - 699).
Però c’è paura e paura
Nelle Troiane,
Ecuba non approva la paura se uno teme senza essere passato attraverso la
ragione: “oujk aijnw` fovbon, o{sti~ fobei`tai mh; diexelqw;n
lovgw/” (vv. 1165 - 1166). Nella
fattispecie, la paura irragionevole è quella che i Greci hanno avuto del
piccolo Astianatte, al punto di mandarlo a morte.
Allora, la paura che spinge a uccidere un bambino è vergognosa: sarà
disonorevole per la Grecia l’iscrizione: “to;n pai`da tovnd j e[kteinan j
Argei`oiv povte” ( Troiane, v. 1191), questo bambino
uccisero un giorno gli Argivi per paura.
Nell’ammazzare un bambino, i Greci, li accusa Andromaca, si rivelano quali
i veri barbari, i più barbari: “w\ barbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~
kakav, - tiv tovnde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion;” (Troiane, vv. 764 - 765).
“Il mondo è divenuto “illuminato”. L’angoscia si è dissolta, e la
“libertà” minaccia di prevaricare. Già il Prometeo ha mostrato
come il valore della “libertà” per Eschilo sia mutato, ed essa sia divenuta
problematica. Quindi la paura della costrizione diviene timore riverente di ciò
che sta all’ultimo. A Clitennestra era mancata questa soggezione, questo
scrupolo. La giustizia ora per Eschilo si trova a metà tra libertà e
costrizione (…) Eschilo conosce l’orgoglio dello spirito, che ardisce spingersi
fino all’estremo. Il suo Prometeo aveva offeso questa aijdw'~. Dalla lotta e dalla problematica dell’essere nasce l’insegnamento
del mevson, la concezione classica dell’aureo mezzo[4] (Eum.,
525ss.)…Il compito dell’uomo è trovare il giusto mezzo tra indipendenza e
dipendenza”[5].
Il concetto della paura opportuna all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[6] di Sallustio:" Nam
ante Carthaginem deletam (...) metus hostilis in bonis
artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet
ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41),
infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la
cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi,
naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si
fecero avanti.
La paura è il presupposto di un ordinato vivere civile. Questa norma si
trova anche nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dove Machiavelli scrive:"Perché
dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia
sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della
religione" (I, 11).
giovanni ghiselli
[1] M. Cacciari, Hamletica, p.
100
[2] V. Di Benedetto
(introduzione di) Eschilo, Orestea, p. 10.
[3] Dodds, The
ancient concept of progress, p. 50.
[4] La formulazione
più nota del giusto mezzo, ma solo una delle tante, è quella di
Orazio:" Est modus in rebus; sunt certi denique fines,/quos ultra
citraque nequit consistere rectum " (Satira I, 1,
vv.106 - 107), c'è una misura nelle cose; ci sono insomma limiti definiti al di
qua e al di là dei quali non può stare il giusto (ndr)..
[5] B. Snell, Eschilo
e l’azione drammatica, p. 174.
[6] Del 40 ca. a. C.
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