NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 5 gennaio 2021

L’amore sulla neve

Con la memoria che non siamo sempre vissuti imprigionati e ossessionati dal virus

 

Lunedì nove marzo c'era un gran sole, caldo, luminoso, sicuro. Ci trovammo a colazione pieni di buonumore. Durante la notte avevo deciso che da lei non dovevo aspettarmi più di quanto voleva darmi: poco oramai, che però avrei utilizzato al meglio per la mia opera prossima a cominciare. Anche Ginevra probabilmente nella notte aveva pensato di prendermi quanto poteva, senza fare storie e lagne prive di qualsiasi costrutto. Così armonizzati e contenti come possono esserlo due amanti ex innamorati che hanno deciso di sfruttarsi a vicenda, salimmo con la funivia al rifugio Le cune dove ci fermammo ad abbronzarci, quasi in silenzio. Sul mezzogiorno, per cambiare posizione e visuale, scendemmo in un rifugio più basso e riparato, dove era forte il calore della fiamma

celeste che dona e nutre la vita. Appena scesi dalla seggiovia, ci togliemmo le giacche a vento e arrotolammo le maniche delle camicie. L'umore diveniva sempre più allegro. A un tratto notai una casetta di legno in mezzo alla neve: distava circa un chilometro in direzione di Bellamonte e tutt’intorno per ampio tratto non si vedevano orme. Doveva essere disabitata.

Dissi: "Creatura, guarda quel casinetto in mezzo alla luce: è nostro[1] . Andiamo là ad abbronzarci anche i corpi". Desideravo fare l'amore all'aria aperta, tra il sole e la neve che lo potenziava, ma conservavo parte della cautela che mi ero imposta la sera prima. Però Ginevra mi fece capire che potevo, anzi dovevo essere franco.

"Dai - disse - andiamo là e facciamo l'amore!".

"Come ai bei tempi - pensai - Stai a vedere che questa è rinsavita, e mi ama di nuovo!". Le feci un sorriso di riconoscenza, poi ci incamminammo semiabbracciati. Qua e là affondavamo fino alle ginocchia e oltre, in qualche buco pieno di acqua per il disgelo. Prendevamo tutto con allegria.

"Poi ci spogliamo e ci asciughiamo ai raggi caldi, corroborati da questo biancore" facevo.

E lei: "Sì, sì, voglia di fare, voglia di fare!".

"Sul serio è diventata un’altra volta spiritosa e simpatica la mia amante" pensavo.

Eravamo eccitati e felici. Finalmente giungemmo alla baita. Era proprio isolata. Salimmo sulla terrazza non alta che la cingeva,

afferrandone il bordo e tirandoci su. Poi scavalcammo il parapetto e ci stendemmo sul lato volto a sud ovest, verso il passo Rolle. Si vedevano soltanto le montagne innevate e la cascata di luce che le faceva brillare. Rimanemmo fermi e silenziosi per alcuni minuti, osservando il paesaggio. Sembrava un pomeriggio di luglio: il cielo era così luminoso e l'aria tanto calda che non rabbrividivo all'idea di spogliarmi per fare l'amore con una donna di cui non mi fidavo. Alcune grosse mosche iridate volavano ronzando intorno a noi senza posa. Davanti agli occhi avevamo le pale di San Martino, bianche, lontane, e illuminate così ardentemente da sembrare tre opliti giganti levatisi al sole con le armature corrusche per riverberare i dardi di fuoco verso di noi. I lati settentrionali, i fianchi destri degli smisurati guerrieri, dall'ombra che eternamente li copre, mandavano bagliori azzurrini, gradevolmente freschi in quella illusione d'estate.

 

Ci spogliammo entrambi, del tutto. Stendemmo i vestiti a far da giaciglio, ma le mutande le appesi ad un filo teso sopra le nostre teste con delle mollette; per potere prenderle subito in caso di necessità, le mie e quelle della mia giovane donna, odorose del sesso suo, della carne viva, stillante una profumata rugiada. Quando eravamo a Bologna, nel grande letto, e dovevamo alzarci in fretta e furia poiché il tempo del suo permesso era scaduto, talvolta non riuscivamo a scovarle che dopo lunghe ricerche. A dire il vero mentre ficcavo la testa gonfia di sangue sotto il letto, e allungavo una mano, affannato, respirando la polvere del pavimento, pensavo in dialetto pesarese: "Se quest è un accident, che dio ne manda cent".

Negli ultimi tempi avevo ripreso l'abitudine, imparata dalla magna mater Helena, la serena Sarjantola, di metterle sotto il cuscino, ma anche da lì talora, diabolicamente, sparivano. Le care, profumate mutande delle mie amanti preziose, sempre rimpiante come si dice dei morti.

Quasi il meglio della vita. Quando ripenso alle donne che meravigliosamente conobbi e al tempo migliore con ciascuna di loro, come quando ricordo i giovani cui ho insegnato ad amare la vita, non credo che il vivere mio sia stato soltanto il sogno di un'ombra[2], né una tragedia totale, né un fallimento completo. Una bella opportunità è stata la vita per me, ed io non l'ho sprecata, anzi.

Così, stesi su quella terrazza di legno, scaldati e abbronzati dal sole di primavera, compenetrati a vicenda, riversi e fusi l'uno nell'altro, sorvolati da mosche ronzanti canzoncine primaverili, ci scambiammo piacere illudendoci di avere ritrovato il tempo felice di quando eravamo innamorati e avevamo sempre voglia di unirci e di conoscerci meglio. Succedeva in casa, nell’automobile, sulla spiaggia di Pesaro nel mese di luglio quando prendevamo un moscone e lo remavamo velocemente, a turno, finché si giungeva al largo, lontani da ogni presenza umana.

Allora, sul fondo ligneo della piccola imbarcazione, abbacinati dal sole, sorvolati da bianche farfalle disperse sulla grande pianura d'acqua azzurra e salata, ci toglievamo i costumi, li mettevamo sopra il sedile più alto e facevamo l'amore tante volte da arrivare a sentire la gioia dionisiaca della fusione con la luce, con il mare, con l'intero universo che ci sorrideva. Quindi tutti i malevoli, gli invidiosi gonfi di risentimento, i rinnegatori della vita, erano confutati, messi a tacere sconfitti.

Il 9 marzo di quell’anno lontano in mezzo a quei monti antropomorfi vicini al disgelo riuscimmo a fonderci ancora una volta con la stessa panica ebbrezza. “La vita è amore, la vita è bellezza”, pensai, il resto è attesa di amore. Allorché fummo sazi di baci e carezze, ci rivestimmo. Il sole intanto si era avvicinato alle montagne: molto più lunghe e fredde cadevano le ombre dai dossi rotondi e dalle rocce appuntite. Bisognava tornare verso la seggiovia prima che chiudessero le piste e fermassero gli impianti, lasciandoci in mezzo alla neve tutta la notte, quando sarebbe stato non piacevole bello e festoso, ma raccapricciante, forse anche letale, rimanere distesi sotto il cielo, sia pure abbracciati e vestiti, guardando le stelle e pregandole di non farci morire assiderati.

Eravamo ancora contenti, anzi quasi felici. Ginevra disse che l'amore fatto all'aperto era un segno di ritrovata intesa dopo due anni di smarrimento e confusione. Mentre tornavamo in paese con l'ultima corsa, tanto che la cabina pullulava di inservienti rubizzi e giulivi, osservavo il sole declinare tra le rupi aguzze: sembrava uno splendido uccello di fuoco calato sul nido di pietra dove aveva appoggiato gli artigli, mentre raccoglieva le ali e piegava il collo, arrotondando la forma dalle piume vermiglie. "Lì non si scorgono del sole le rapide membra; in tal modo nel serrato segreto dell'armonia si è resa compatta la sfera circolare tripudiante della beata unicità"[3]. Era l’immagine visibile della Mente dell’Universo[4].

 

Pensai a quante preghiere gli avevo rivolto dovunque l'avessi visto andare a dormire, quando si annidava tra i monti dopo un volo in mezzo alla luce, o si tuffava come pesce nel mare, oppure si stendeva, come un vagabondo, in un giaciglio di foglie tra gli alberi delle colline, o scendeva su grandi pianure, in mezzo a corone di rondini e di nubi purpuree. Dovunque gli avevo rivolto preghiere, sempre esaudite se buone. Quindi gli avevo reso ringraziamenti pieni di riconoscenza. Lo feci anche quel giorno di marzo, poiché con la sua fiamma amorosa aveva ravvivato la fiaccola nostra, già vacillante, languida e vicina a morire. Ero riconoscente pure a Ginevra, siccome aveva assecondato i progetti del dio che da noi si aspettava le cose egregie cui ci aveva predestinati da sempre. Io avrei scritto un capolavoro, lei sarebbe diventata una grande giornalista e ci saremmo amati per sempre. Glielo dissi e le feci piacere. Così, confidando in destini buoni, tornammo alla “Campagnola” e cenammo.

 

giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Don Giovanni di Mozart. Da Ponte: “Quel casinetto è mio: saliremo, /e là gioiello mio, ci sposeremo” (I, 9).

[2] Cfr. Pindaro, Pitica VIII, 95 - 96: skia'" o[nar - a[nqrwpo" sogno di un'ombra è l'uomo.

[3] Cfr. Empedocle, Poema fisico, fr.30 Diels - Kranz.

[4] “Nulla sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l sole. Lo sole tutte le cose col suo calore unifica” (Dante, Convivio, III, 12).

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