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Eschilo profeta di Giustizia
Il processo al matricida Oreste.
Apollo lo difende affermando che nella generazione di un figlio la madre conta
poco. E’ il maschio che fa quasi tutto.
Le Erinni dunque si avvicinano alla soluzione
del conflitto con Atena e Apollo, prescrivendo regole accettabili da qualsiasi
religione rispettosa della vita: “La dismisura demenziale (u{bri~)[1] è
figlia di empietà secondo il vero” (Eumenidi, v. 534).
Quindi, proseguono le Erinni, sulla
via di diventare Eumenidi:
Eschilo profeta di Giustizia
stralcio dal corso sulla tragedia.
Queste parole potrebbero essere
attribuite anche a Papa Francesco, o a Sant’Ambrogio, o a Giovanni Battista, o
a Cristo
"Rispetta l'altare di
Giustizia, e non disprezzarlo prendendolo a calci con piede ateo mirando al
profitto - kevrdo"
ijdwvn - poiché
seguirà punizione"( Eschilo, Eumenidi, secondo stasimo vv.539 - 541).
Gli stessi accenti posati sulla
forza vincente e ineludibile della Giustizia si trovano nell’Agamennone.
Eschilo è in effetti uno dei profeti
della Giustizia.
"infatti non c'è difesa per
l'uomo che teso a sazietà di ricchezza ha preso a calci il grande altare di
Giustizia, con il proposito di annientarla" (Agamennone, primo
stasimo 381 - 384).
E, poco più avanti:
"Ogni rimedio è vano. Il danno
non rimane nascosto,
ma risalta, quale luce di sinistro
bagliore; e, come bronzo cattivo, per sfregamento e colpi, risulta fatto di
grumi neri il colpevole sottoposto a giustizia, poiché, insegue come fanciullo
un uccello che vola, dopo che ha imposto alla città sciagura
insostenibile" (Agamennone, 387 - 394).
Torniamo alle Erinni le quali
ripetono i precetti che facevano già parte dell'educazione morale e pure
formale dell'uomo omerico: ciascuno deve provare"venerazione per i
genitori"
(Eumenidi, v. 545) e rispetto per
gli ospiti.
La religione delle Erinni si
assimila sempre più a quella degli dèi olimpici. Ancora: La Giustizia salva
dall'infelicità colui che la segue eJkwvn d j ajnavgka~ a[ter (v. 550), di sua volontà, non costretto,
mentre "ride
il demone sull'uomo violento, vedendo in sventure irrimediabili colui che non
se le sarebbe mai aspettate, e non ce la fa nella sua debolezza a superare la
vetta, quello che avendo scagliato il benessere di un tempo contro lo scoglio
della Giustizia[2] va in
malora per sempre, illacrimato, annientato" (vv. 560 - 565).
Sono le ultime parole del secondo
stasimo.
All’inizio del Terzo
Episodio (vv. 566 - 777) si apre il processo davanti ai giudici
dell’Areopago.
Imputato è il matricida, Apollo il
difensore, le Erinni accusatrici. Atena presiede il tribunale da lei stessa
istituito. Un presidente non imparziale, però
Febo, dopo avere affermato che ha
già purificato Oreste (v.578), si prende la responsabilità del matricidio
(v.580).
La divinità delfica è interpretata in
maniera molto diversa da Euripide che la rappresenta capace di abbandonare non
solo i suoi protetti, ma anche il figlio Ione avuto da Creusa, come
vedremo.
Atena dà la parola all'accusa per
prima. Le Erinni procedono facendo domande all'imputato il quale non nega di
avere ammazzato la madre (v.588); anzi afferma di averle tagliato la gola
(v.592). Così rivendica dignità al suo delitto, come ha fatto Prometeo, e anzi
cerca di santificarlo indicando Apollo quale mandante e testimone (v. 594).
“Abbastanza spesso il delinquente
non è all’altezza della sua azione: egli la minimizza e la calunnia”[3].
Proust pensando a Edipo e
Oreste considerò l’uccisione dei genitori un delitto di dignità mitologica, e
in qualche modo accettò questa difesa del matricida: “Furono i tragici Greci e
Dostoevkij[4] a fargli
intendere la grande infelicità del peccatore, la sua immensa solitudine. In un
passo che non si trova nelle sue opere, perché soppresso, in quanto i
contemporanei temettero di leggervi l’apologia del matricidio, Proust ricordava
che nessun altare fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più
profonda venerazione e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di
Oreste a Sparta”[5].
L'Oreste di Eschilo dunque afferma
che Clitennestra meritava la morte: "infatti portava le macchie di due
delitti pestiferi"(Eumenidi, v. 600). Ammazzò il marito e il padre
dei suoi figli.
Ma le Erinni non cedono ancora. La
corifèa sostiene di nuovo che Clitennestra, uccidendo il marito, non era poi
tanto colpevole: "non era consanguinea (o{maimo~) dell'uomo che uccise"(v.605).
Oreste, in difficoltà, chiede
l'aiuto di Febo il quale, dopo essersi proclamato profeta di Zeus, nega, senza
esitare, l’equivalenza dell'uccisione di Clitennestra e di quella del “nobile
eroe onorato di scettro concesso da Zeus" (vv. 625 - 626), tanto più per
il fatto che il re venne ammazzato a tradimento, quando, appena tornato dalla
guerra (v.631), la moglie prima lo accolse con volto lieto (v. 632) poi gli
preparò il bagno nella vasca (v. 633), quindi gli gettò addosso un mantello
grande come una tenda (v.634), e infine,
"dopo averlo inceppato con un
bel peplo inestricabile, lo colpisce (kovptei[6]), vv. 634 - 635.
La Corifèa a questo punto fa
un'obiezione che sembra un gioco sofistico[7]: se Zeus si
prende tanta cura della sorte dei padri, come mai "egli stesso mise in
ceppi il vecchio padre Crono?"(v. 641). Una obiezione che viene ripresa
nelle Nuvole di Aristofane dal discorso ingiusto (vv.904 - 905)
Il riferimento è alla lotta tra la
terza generazione divina e la seconda, uno scontro che si risolse con il
trionfo degli dèi olimpi e del cosmo sul caos.
Apollo quindi replica con una
difesa della vita, seppure non di quella di Clitennestra: un incatenato può
essere sciolto ma: "una volta che la polvere (kovni~[8]) abbia succhiato il sangue di un uomo
ucciso, non c'è nessuna resurrezione - ou[ti" e[st ajnavstasi"(vv. 647 - 648)
Una nobile difesa della vita umana
come si vede, oltretutto in accordo con quanto afferma il Coro formato dagli
anziani di Argo nell'Agamennone[9], un'apologia
anche efficace, ma unilaterale, in quanto non tiene conto della vita di
Clitennestra.
A lei pensano le Erinni che
rinfacciano il matricidio a Oreste e al suo difensore: "dopo avere versato
nel suolo il sangue della madre che scorre anche in lui, abiterà poi in Argo
nella casa del padre?" (vv. 653 - 654).
A questa domanda Apollo risponde con
una affermazione di patriarcato e di antifemminismo estremo. Vale la pena
riferirla per quanto è fuori e fuori luogo adesso: "La cosiddetta madre
non è la generatrice del figlio (tevknou tokeuv~ , ma la nutrice (trofov~) del feto appena seminato: genera (tivktei) il maschio che la monta; colei, come un ospite con
un ospite, salva il germe (e[rno~), per quelli ai quali un dio non
l’abbia distrutto" (vv. 658 - 661).
Nell’ Oreste di
Euripide, il protagonista, per scagionarsi, utilizza il medesimo argomento
della generazione patrilinea.
Infatti Oreste dice al nonno Tindaro
che lo ha accusato di spietatezza, poiché non si è fermato nemmeno davanti al
seno della madre: “path;r me;n
ejfuvteusen me, sh; d j e[tikte pai'~, - to; spevrm j a[roura paralabou's j
a[llou pavra: - aneu de; patro;~ tevknon oujk ei[h pot j a[n” (vv. 552 - 554), il padre mi ha
generato, tua figlia mi partoriva,/un campo ha preso il seme da un altro: - senza
il padre non ci sarebbe mai un figlio.
In questa fase la tendenza portata
avanti da certe femministe è quella di minimizzare la partecipazione del
maschio alla nascita di un figlio: la donna può decidere da sola se fare
nascere il bambino di cui è gravida, significa che l’uomo, il padre, conta poco
o niente.
Ma il coro di donne argive
nell’epodo del secondo stasimo ribatte che non c’è sulla terra malattia,
lacrime, pena più grande che versare con la propria mano a terra il sangue
della madre ammazzata (Oreste, vv. 832 - 833)
Sono esempi di logica doppia, aperta
al contrasto.
L’autore di Il
pensiero storico classico riconosce alla cultura dei Greci una
maggiore disponibilità a considerare e accettare punti di vista diversi tra
loro: "La
nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta al
contrasto. Nell'Oresteia di Eschilo Divka Divkai (xymbaleî ) "Dika si scontrerà con
Dika"[10]: ci
possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia ,
quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos
di Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste
(e di Apollo, il dio degli Alcmeonidi legati al ghénos Eupatrida di
Eschilo). Così in Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di
Dike; ma c'è anche la "tirannide" di Deioce per cui i Medi
hanno kòsmos ed eunomìa , e la
"tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono
"libertà", eleutherìa "[11].
Questa logica aperta al contrasto
diviene metodica già con i Dissoì lògoi [12] i “Discorsi
in contrasto”, presenti pure nelle Antilogie perdute di
Protagora[13] il
quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due
asserzioni contrapposte tra loro" come ricorda Diogene Laerzio (9, 51).
Le lezioni dei sofisti “erano particolarmente
adatte a esercitare la riflessione, la capacità di osservazione e l’attitudine
all’analisi, ossia a sviluppare quella libera vivacità di spirito che è ancora
oggi il fine dell’istruzione. I sofisti insegnavano a parlare pro e contro ogni
causa, mostrando che solo la chiara intelligenza delle ragioni favorevoli e
contrarie assicurava la massima libertà di decisione contro le pretese di un
sentimento immediato e inconsapevole. E’ quel che distingue anche oggi la
persona colta da quella incolta, la capacità di non rimanere in balìa delle
impressioni e di momentanei impulsi arbitrari, bensì di acquistare padronanza
di sé e dei propri affari grazie a un’intelligenza lucida e a un esame
spregiudicato delle cose”[14].
giovanni ghiselli
[1] Sofocle,
delfico ortodosso, scriverà che l’u{bri~ è
madre e nutrice del tiranno: "u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873), la prepotenza fa
crescere il tiranno.
[2] L'immagine della collisione
con Diche è ricorrente nella tragedia: Sofocle nell'Antigone
fa dire al
Coro queste parole:"Avanzando verso l'estremità dell'audacia, hai urtato ,
contro l'eccelso trono della Giustizia, creatura, con grave
caduta."(vv.853 - 855).
[3] Nietzsche, Di
là dal bene e dal male, Aforismi e interludi, 109.
[4] “Padre
Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra quelli
che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora
si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E
l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché
Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano
dolore” (P. P. Pasolini, Scritti corsari, p. 64) ndr.
[5] Giovanni
Macchia, L’angelo della notte, p. 166.
[6] Con questo tempo presente la corifèa
sembra suggerire che la donna assassina colpisce ancora e colpirà sempre fino a
quando quel delitto non verrà esemplarmente castigato.
[7] Il
gioco sofistico porta perfino a un capovolgimento del valore della parola che
indica il peccato universale dei Greci: nelle Nuvole il Discorso
ingiusto (Lovgo"
a[diko" ) sostiene
che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv" , v. 1067) e non era piacevole passare la notte
con lui, mentre la donna gode a essere sbattuta. L' u{bri" , la violenza, applicata alla libidine della
donna, diviene un valore.
[8] La
polvere è il simbolo negativo della sterilità e della morte: prefigura
l'inevitabile esito della nostra vita:"what is this quintessence of
dust? " (Amleto, 2, 2), che cosa è per me questa
quintessenza di polvere? domanda il principe di Danimarca. Naturalmente l'uomo,
e pure la donna, dei quali Amleto non si prende alcun piacere. "Alexander
died, Alexander was buried, Alexander returned into dust" (Amleto,
5, 1), Alessandro morì, Alessandro fu sepolto, Alessandro ridivenne polvere. Nell'Agamennone di
Eschilo, l'araldo che viene ad annunciare l'arrivo del vincitore è accompagnato
dal segno negativo della diyiva
kovni" (v.
495), l'assetata polvere, sorella vicina del fango. Nell' Antigone il segno positivo della luce viene contrapposto a quelli negativi
della polvere, del sangue e della pazzia: "Ora infatti sull'estrema/
radice si era distesa una luce (favo" )
nella casa di Edipo/ma poi la polvere macchiata di sangue (foiniva... kovni") /degli dei infernali la falcia,/e
pazzia della parola ed Erinni della mente" (vv.599 - 603). Nel carme 66 di Catullo, i distici
di biasimo dell'adulterio (vv.79 - 88) aggiunti alla Chioma di Berenice di
Callimaco associano la polvere all'impurità delle spose infedeli le cui offerte
votive infauste vengono rifiutate dalla chioma incielata della casta sposa di
Tolomeo III Evergete (246 - 222): "sed quae se impuro dedit
adulterio,/ illius a! mala dona levis bibat irrita pulvis/namque ego ab
indignis praemia nulla peto", ma se qualcuna si concede all'impuro
adulterio, ah la polvere leggera beva inutilmente i doni maledetti di quella,
io infatti non voglio le offerte delle donne indegne (vv.84 - 86). Nella Ricerca di
Proust la polvere simboleggia l'insignificanza:"l'esistenza offre
interesse solo nelle giornate in cui alla polvere della realtà viene a
mischiarsi sabbia magica, in cui qualche volgare incidente della vita diventa
una molla fantastica"[8]. Insomma: "I will shaw you fear in a handful of dust" (T.
S. Eliot, The Waste Land, v.30), in un pugno di polvere vi mostrerò
la paura.
[9] “Una
volta caduto a terra nero sangue mortale di quello che prima era un uomo, chi
potrebbe farlo tornare indietro incantando? (vv. 1019 - 1021).
[10]Coefore 461: " [Arh" [Arei xumbalei', Divka/ Divka".
[11]S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[12] "
Un testo che può definirsi la formulazione "relativistica" del
pensiero dei sofisti… Gli "agoni di discorsi" tucididei echeggiano
questa problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoì lògoi…
uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440" (S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss.).
[13] Nato
nella ionica Abdera intorno al 485 a. C., all'incirca coetaneo di Euripide
dunque.
[14] J. G. Droysen, Aristofane,
p. 194.
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