NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 5 gennaio 2021

Eschilo. "Prometeo incatenato", V

Rubens, Vulcano forgia le folgori per Giove
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Il potere supremo è quello della Necessità superiore a qualsiasi trovata tecnologica.


Prometeo dunque rubò e donò ai mortali il fulgore del fuoco, utile a tutte le tecniche: "pantevcnou puro;" sevla" , - qnhtoi'si klevya" w[pasen[1]" (Prometeo incatenato, vv. 7 - 8). Il fuoco era fiore di Efesto (to; so;n ga;r a[nqo" , v. 7), ricorda Cratos, Dominio, uno dei tre[2] esecutori del volere di Zeus, a Efesto stesso che, pur impietosito, si accinge a inchiodare il Titano a una rupe della Scizia.

 In questa tragedia di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo.

"Questo sapere è sempre una conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso degli antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato, alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità (…) il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica"[3].

“La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l’età pre - tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici”[4]

 

Sono andato a caccia - racconta il Titano - della sorgente rubata del fuoco (phgh;n klopaivan) da mettere nel cavo di una canna, "h} didavskalo" tevcnh" pavsh" brotoi'" pevfhne kai; mevga" povro" (vv. 109 - 111), ed essa, la phghv, si è rivelata maestra e grande mezzo di ogni tecnica per tutti i mortali.

Prometeo però deve riconoscere: ho infuso in loro[5] cieche speranze ("tufla;" ejn aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa", v.250).

 

 Egli è divinità solo apparentemente benefica in quanto portatore di conoscenze pratiche fuorvianti:" qnhtou;" g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di prevedere il destino" (v.248), cioè la loro sorte mortale

Prometeo ha reso ciechi gli uomini riguardo al futuro.

"Wilamowitz ne ha tratto la conclusione (Aisch. Interpr. , p. 149) che Eschilo abbia accostato, senza coordinarli, due differenti miti di Prometeo, uno dell'amico degli uomini, l'altro del demone cattivo"[6].

Prometeo dunque è una figura ambigua o polivalente, come altre del mito: Eracle p. e., o Saturno o Dioniso.

Snell invece sostiene che "Prometeo ha suddiviso il suo dare e il suo togliere in modo che gli uomini non avessero problemi. Essi potevano raggiungere la conoscenza delle tevcnai, e ciò dava loro la soddisfazione del lavoro quotidiano; ma invece della conoscenza del proprio destino e della propria morte, radicò in loro le "cieche speranze" come un grande "vantaggio" [7].

 

La cecità come vantaggio è affermata dall’ Edipo di Sofocle (Edipo re, vv. 1334 - 1335) e da un personaggio di Pirandello nella novella Va bene

 

In effetti il coro delle Oceanine commenta le cieche speranze affermando: "meg j wjfevlhma tou't j ejdwrhvsw brotoi'"" (v. 251), hai donato ai mortali questo grande vantaggio.

Con analoga intenzione il Titano dirà più tardi a Io che è meglio per lei non apprendere il futuro: "to; mh; maqei'n soi krei'sson h] maqei'n tavde", v. 624.

 

Non sempre sapere è bene.

 Tale è la convizione di Tiresia nell' Edipo re: "Ahi,ahi, sapere come è terribile ( fronei'n wJ" deinovn) quando non giova/ a chi sa! Queste cose infatti, pur sapendole bene io/le ho distrutte; ché altrimenti non sarei venuto qua (vv. 316 - 318).

 

Sapere è una delle cose inquietanti (ta; deinav)[8].

La "cognizione del vero" afferma Leopardi" non sarà mai sorgente di felicità, né oggi; né era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine…" (Zibaldone, 679).

 Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij, un "racconto fantastico" del 1877, è un sogno dell'età dell'oro che smonta il sapere e la scienza con i quali gli uomini prostrano e inaridiscono la vita.

Gli uomini di quell'età "non ambivano a nulla, ma erano sereni, non aspiravano alla conoscenza della vita così come vi aspiriamo noi, perché la loro vita era totale. Il loro sapere era più profondo e più alto della nostra scienza, dal momento che la nostra scienza tenta di spiegare cos'è la vita (…) essi erano in grado di vivere anche senza la scienza (…) essi parlavano con gli alberi (…) Guardavano così tutta la natura che li circondava e gli animali, i quali vivevano con loro pacificamente, senza aggredirli, poiché li amavano, sopraffatti dal loro stesso amore".

 

Prometeo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514): “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.

 

Cfr. a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni artenecessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit”( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C. 

Avanzando nella Sogdiana Alessandro si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).

  

Il potere supremo dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:

"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti farmaci/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962 - 972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.

E ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga;r Zeu;~ o{ti neuvsh/ - su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te (la Necessità) lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.

Alcuni versi prima, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ )” ( Alcesti, vv. 785 - 786)

 

Nella Prefazione al romanzo Notre - Dame de Paris, Victor Hugo scrive: “ Alcuni anni or sono, visitando, o per meglio dire rovistando all’interno all’interno di Notre - Dame l’autore di questo libro trovò in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro: ANAGKH

Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su quella parola si è fatto questo libro.

Marzo 1831”.

 

giovanni ghiselli

 



[1] Aoristo di ojpavzw, "dono".

[2] Terzo esecutore è Bia (Violenza), kwfo;n provswpon, personaggio muto

[3] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 121.

[4] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p. 21. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.

[5] Negli uomini.

[6] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 122.

[7] B. Snell, Op. e p. citate sopra.

[8] Cfr. Antigone, vv. 332 - 333.

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