PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUIRubens, Vulcano forgia le folgori per Giove
Il potere supremo è quello della Necessità superiore a qualsiasi trovata tecnologica.
Prometeo dunque rubò e donò ai mortali il
fulgore del fuoco, utile a tutte le tecniche: "pantevcnou puro;" sevla" , - qnhtoi'si
klevya" w[pasen[1]" (Prometeo incatenato, vv. 7 - 8). Il fuoco era
fiore di Efesto (to; so;n
ga;r a[nqo" , v.
7), ricorda Cratos, Dominio, uno dei tre[2] esecutori
del volere di Zeus, a Efesto stesso che, pur impietosito, si accinge a
inchiodare il Titano a una rupe della Scizia.
In questa tragedia di Eschilo il Titano afferma di avere escogitato le tevcnai (v. 477), che fanno partire la civilizzazione, anzi: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk Promhqevw" (v. 507), tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo.
"Questo sapere è sempre una
conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà, le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre
l'astronomia, i numeri e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del
mondo nel senso degli antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato,
alla maniera attica, verso le tevcnai, verso uno
scopo pratico e un'utilità (…) il fuoco è il simbolo delle tevcnai, dell'attività pratica"[3].
“La tecnica, infatti, non tende a
uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non
svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo
funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro
contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà,
salvezza, verità, senso scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica,
religione, storia di cui si era nutrita l’età pre - tecnologica, e che ora,
nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati
dalle radici”[4].
Sono andato a caccia - racconta il
Titano - della sorgente rubata del fuoco (phgh;n klopaivan) da mettere
nel cavo di una canna, "h}
didavskalo" tevcnh" pavsh" brotoi'" pevfhne kai;
mevga" povro" (vv. 109 - 111), ed essa, la phghv, si è rivelata maestra e grande mezzo di ogni
tecnica per tutti i mortali.
Prometeo però deve riconoscere: ho
infuso in loro[5] cieche
speranze ("tufla;"
ejn aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa", v.250).
Egli è divinità solo
apparentemente benefica in quanto portatore di conoscenze pratiche
fuorvianti:" qnhtou;"
g j e[pausa mh; prodevrkesqai movron", ho fatto smettere ai mortali di prevedere il
destino" (v.248), cioè la loro sorte mortale
Prometeo ha reso ciechi gli uomini
riguardo al futuro.
"Wilamowitz ne ha tratto la conclusione
(Aisch. Interpr. , p. 149) che Eschilo abbia accostato, senza
coordinarli, due differenti miti di Prometeo, uno dell'amico degli uomini,
l'altro del demone cattivo"[6].
Prometeo dunque è una figura ambigua
o polivalente, come altre del mito: Eracle p. e., o Saturno o Dioniso.
Snell invece sostiene che
"Prometeo ha suddiviso il suo dare e il suo togliere in modo che gli
uomini non avessero problemi. Essi potevano raggiungere la conoscenza
delle tevcnai, e ciò dava loro la soddisfazione
del lavoro quotidiano; ma invece della conoscenza del proprio destino e della
propria morte, radicò in loro le "cieche speranze" come un grande
"vantaggio" [7].
La cecità come vantaggio è affermata
dall’ Edipo di Sofocle (Edipo re, vv. 1334 - 1335) e da un personaggio
di Pirandello nella novella Va bene.
In effetti il coro delle Oceanine
commenta le cieche speranze affermando: "meg j wjfevlhma tou't j ejdwrhvsw brotoi'"" (v. 251), hai donato ai
mortali questo grande vantaggio.
Con analoga intenzione il Titano
dirà più tardi a Io che è meglio per lei non apprendere il futuro: "to; mh; maqei'n soi krei'sson h] maqei'n tavde", v. 624.
Non sempre sapere è bene.
Tale è la convizione di Tiresia nell' Edipo
re: "Ahi,ahi,
sapere come è terribile ( fronei'n
wJ" deinovn) quando non giova/ a chi sa! Queste cose infatti, pur
sapendole bene io/le ho distrutte; ché altrimenti non sarei venuto qua (vv. 316
- 318).
Sapere è una delle cose inquietanti
(ta; deinav)[8].
La "cognizione del vero"
afferma Leopardi" non sarà mai sorgente di felicità, né oggi; né era
allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine…" (Zibaldone,
679).
Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij, un
"racconto fantastico" del 1877, è un sogno dell'età dell'oro che
smonta il sapere e la scienza con i quali gli uomini prostrano e inaridiscono
la vita.
Gli uomini di quell'età "non ambivano
a nulla, ma erano sereni, non aspiravano alla conoscenza della vita così
come vi aspiriamo noi, perché la loro vita era totale. Il loro sapere era più
profondo e più alto della nostra scienza, dal momento che la nostra scienza
tenta di spiegare cos'è la vita (…) essi erano in grado di vivere anche senza
la scienza (…) essi parlavano con gli alberi (…) Guardavano così tutta la
natura che li circondava e gli animali, i quali vivevano con loro
pacificamente, senza aggredirli, poiché li amavano, sopraffatti dal loro stesso
amore".
Prometeo sopporta di sapere il suo
destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di
reggere una simile tensione (v. 514): “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è
molto più debole della necessità.
Cfr. a questo proposito Curzio Rufo:
“Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo
praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit”( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente
di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei
nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332
a. C.
Avanzando nella Sogdiana Alessandro
si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in
adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11).
Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7,
10: necessitas ante rationem est).
Il potere supremo dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti.
Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette
a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità
massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi
lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più
forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti
favrmakon)/nelle
tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti farmaci/diede agli
Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali
afflitti dalle malattie"(vv. 962 - 972). Da questi versi si vede che la
Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte
medica.
E ancora: la Necessità non è meno
forte di Zeus: “kai; ga;r
Zeu;~ o{ti neuvsh/ - su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque
cosa Zeus approvi, con te (la Necessità) lo porta a compimento, le dice il coro
dei vecchi di Fere.
Alcuni versi prima, nel terzo
episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è
chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj
didaktovn) e non si
lascia prendere dalla tecnica (oujd
j aJlivsketai tevcnh/ )”
( Alcesti, vv. 785 - 786)
Nella Prefazione al romanzo Notre
- Dame de Paris, Victor Hugo scrive: “ Alcuni anni or sono, visitando,
o per meglio dire rovistando all’interno all’interno di Notre - Dame l’autore
di questo libro trovò in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola
incisa a mano sul muro: ANAGKH”
Ebbene, conclude la prefazione:
“Proprio su quella parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831”.
giovanni ghiselli
[1] Aoristo
di ojpavzw, "dono".
[2] Terzo
esecutore è Bia (Violenza), kwfo;n provswpon,
personaggio muto
[3] B.
Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 121.
[4] U.
Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, p. 21.
Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo
nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999.
[5] Negli
uomini.
[6] B.
Snell, Eschilo e l'azione drammatica, p. 122.
[7] B.
Snell, Op. e p. citate sopra.
[8] Cfr. Antigone,
vv. 332 - 333.
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