Era il 6
di giugno. Stanco per lo studio della mattina e la pedalata successiva, mi
addormentai.dal libro di Orhan Pamuk La donna dai capelli rossi
Mi vidi mentre camminavo sui campi di Montegridolfo, quelli della nonna mia Margherita. Davanti a me camminava una donna giovane e bella dai lunghi capelli rossi.
La raggiunsi: era Päivi o le assomigliava assai.
La terra era ancora fiorita e odorosa come la mia bella compagna, sebbene la vegetale materia dei fiori cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare, quasi bianca, e tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio estivo, tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e, nello stesso tempo, angoscioso.
Il grano maturo, muovendosi con fatica nell’afa dolciastra, sembrava aspettare la falce che gli avrebbe tagliato le spighe, e l’aratro che avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come succede sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Mi accostai alla ragazza e cominciammo a scendere per la solitudine di un pendio del tutto deserto di essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di uccelli, del gorgogliare di rane lontane, nascoste nelle poche pozze rimaste anche a corto di acqua. Dagli alberi veniva il grande frastuono di grigie cicale che, pazze di sole [1], strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.
L’erba aggrovigliata ci rendeva difficile camminare abbracciati giù per la ripida china, sicché ci fermammo a metà del colle dove c’era una casa colonica abbandonata, quella del mezzadro Biagino defunto da tempo.
Ci fermammo sulla spianata dell’aia deserta. Mi sovvennero le battiture cui assistevo quando ero bambino e ricordai il vecchio colono che, privo di figli, era affettuoso con me.
La giovane donna osservava il luogo dove sembrava volesse restare e magari anche fare l’amore. Nel calore potente di quel meriggio in cui sembrava culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi canuto per l’afa, il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri erano stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra bruciando, clamorosi e invadenti come le voci degli animali che preannunciavano l’olocausto odoroso del mondo nell’ardore della canicola.
“Ricordi?” domandò la ragazza fulva che assomigliava molto a Päivi e probabilmente era lei. Tanto che disse “Ricordi quando in autunno a Jyväskylä la bruma scoloriva il sole, ammutoliva gli uccelli, uccideva o faceva fuggire gli insetti, e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci fidiamo a vicenda, e siamo quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo. Io ne sento la voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi inesrtricabili”.
Pensai a quello non risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato con un colpo di spada, poi guardai il sole che stava riducendo le ombre a piccolo scogli bruni nel mare di luce.
“Dai facciamo l’amore” dissi “Ne ho tanta voglia. Ti prego, ti prego, ti prego, mille volte ti prego”, aggiunsi, assumendo una posa da giovanotto giocherellone.
“Sì, ma facciamolo in piedi, come non l’abbiamo fatto mai ancora, una vergogna per due come noi! ” propose tutta contenta la donna. La ricordavo diversa. Ma, così lontana da tutto e, tranne me, da tutti gli esseri umani, la stuzzicava la novità della positura e la spaventava il pensiero di stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le scabrosità del terreno riarso, dal quale i nostri indumenti leggeri, minuti, potevano costituire un diaframma assai inefficace.
Oltretutto aveva le mestruazioni. Si levò i calzoncini , mi chiese di non guardarla mentre si toglieva ogni altro impedimento a fare l’amore. Girai il viso in alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata dove eravamo lontani da umane presenze, da altre case, da strade. Doveva essere il tócco[3]: l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo, aspettando che Päivi mi permettesse di rivolgerle ancora lo sguardo, mi venne in mente il nostro primo tramonto del luglio 1974, quando la splendidissima ventiquattrenne, la finnica conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si cambiava la maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente riflettersi nel pallido sole rosaceo, accrescendone luce e calore.
Il 6 giugno invece, pensando a quel giorno lontano e alle sue mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la vita striarsi di gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di luce liquida, ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per rigenerarne la vita.
Päivi, o chiunque ella fosse, mi distolse dalla visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo l’amore”. Fu assai faticoso. Così, senza sdraiarci, non l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata.
La giovane donna rimase in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai miei occhi: era seria, muta, e mi guardava con l’espressione del desiderio non appagato. Quindi disse: “alzati. Facciamolo ancora”.
“Aspetta un momento” risposi, “rimani così come stai ora. Voglio guardarti”. Mi interessava osservare quello stranissimo aspetto della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei visto mai più: l’immagine di una donna giovane assai, nuda, bella come un’opera d’arte, una statua vivente, illuminata dal sole di giugno mentre il sangue mensile le scorreva giù per le cosce.
Guardavo ora i suoi occhi fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti al mio volto. Il sangue colava verso le ginocchia in rivoli ostacolati dal sole rovente che, disseccando parte del liquido, ne frenava la corsa in discesa lungo il pur ripido e liscio pendio delle cosce. La sinistra era percorsa da due rigagnoli rossi, la destra da uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece pensare: “questa donna nelle belle membra non si discosta troppo dalla madre mia, da mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse un legame di sangue, saremmo incestuosi ma sicuri per il vincolo eterno”. Le volli comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le sarebbe piaciuto.
“Tesoro, ti piacerebbe se fossi il padre tuo?” In quel sogno non era impossibile, poiché con il volgere delle stagioni io avevo superato i sessanta , mentre lei era rimasta come era nel giorno di luglio in cui la conobbi e mi disse che compiva i 24anni mentre io mi avvicinavo ai trenta.
“Sì, Gianni”. Rispose. “Sì, mi piacerebbe tanto. Adesso però facciamo l’amore”.
Continuava a fissarmi senza dire altro, come se fosse una immagine scolpita o dipinta, viva sì, ma immobile e senza pensiero. Le abbracciai la coscia sinistra. I due rivoli bagnarono la guancia mia destra senza contaminarla, anzi purificandola: sentivo di amare quella creatura mirabile come amo la giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della mia adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove entro di giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con i monti antropomorfi cui parlavo quando ero bambino senza altri amici, ed essi, per loro umanità mi rispondevano, un’umanità che più avanti non ho trovato in tanti altri dall’aspetto umano; come amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso e l’Olimpo quando li scalo con la bicicletta; come amavo il grande bosco di Debrecen, quando nelle notti serene di luglio e di agosto, when the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura Elena, lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che appariva e spariva tra gli alberi antichi, e io sorridevo di gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove avevo la buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella che era con me. prima Elena, poi Kaisa, quindi Päivi che finalmente era tornata
Mi scostai per guardare di nuovo il dono più recente, il regalo nuovissimo che la sorte benigna, generosa, mi aveva elargito.
I rivoletti sanguigni, ostruiti e schiacciati dalla mia faccia, avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso, incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala tellus[4], artistica madre natura.
Si sentivano sempre stridere le cicale pazze, gorgogliare le rane lontane da stagni poveri d’acqua, trillare gli uccelli con voci e voli che sembravano di ottimo auspicio.
Non è che i volatili conoscano il futuro, ma i loro versi sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel cinguettare di un passero[5].
Mentre la contemplavo, la ragazza, la figlia adottata, diventava la grande madre natura. I suoi capelli velli d’oro fulvo che splendevano al sole; gli occhi neri, due laghi montani cupi di misteri indecifrabili nel centro profondo, circondati da rive bianche, orlati da alberi strani; i seni erano colline dalle cime appuntite; il crine pubico stillante quel liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì sulla pianta da mani pie di sacerdoti santi, intenti a libarli agli dèi. Lo stomaco teso della divina creatura era una distesa marina quando il calore meridiano senza vento spiana e addormenta la superficie lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti capelli era una valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di terra protesa verso di me per salvarmi dai ricorrenti naufragi.
Sentivo che se fossi riuscito ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei amato la vita del mondo e la stessa mia vita.
“Ti amo” dissi dopo averla ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e che questo sangue di cui mi hai asperso benedicendomi, scorresse dentro di me”.
Non rispose. Facemmo ancora l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo con gli indumenti leggeri della stagione nuda e felice, o piuttosto la meno dolente.
Mentre risalivamo la china per tornare alla nera Volkswagen, disse che voleva evadere dalla Finlandia fredda e venire da me. Io non sono incline a prendermi alcuno in casa, poiché temo di perdere l’autonomia conquistata a fatica, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a quello degli eterosessuali. Ma non glielo dissi.
Le risposi con parole solitamente usate da lei quando eravamo a Debrecen: “may be”
Intanto era già pomeriggio e, sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi tutte le ombre. Quando mi svegliai il sole era già tramontato e io ero solo.
gianni
[1] Cfr. Aristofane, Uccelli, 1096.
[2] Nell'Edipo re di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo" "(660), il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga "(v. 1425), la fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può pensare che il Sole non sia un dio, o, per lo meno, l’immagine visibile dell’Idea del Bene, ovvero di Dio, come insegna Platone. Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa dell’idea religiosa del faraone “eretico” Amenophi IV.
[3] E’ un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto verso mia madre Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo Martelli di Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia della mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi. C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove si viveva negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle donne di casa mia, e al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche l’amore per il sole e per la bicicletta.
[4] Lucrezio, De rerum natura, I, 7
[5] Cfr. Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.
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