Il mare color del vino fotografia di Patrizia Molinari |
Sognai cose amorose, buffe e turbolente.
Era venuta a trovarmi Kaisa, la finlandese amata nell’estate dell’anno millenovecentosettantaduesimno anno dalla salvifica incarnazione del re dell’Universo. Era la studiosa glottologa dai lunghi capelli neri e gli occhi azzurri di cui ho raccontato la storia lunga un mese, ricordi lettore?
Mi piaceva molto per le sue forme e i suoi colori e l’amavo perché non parlava per luoghi comuni.
Si trovava a Pesaro in forma radiosa, mi era vicina mentalmente e fisicamente. Era già sera.
Mi domandavo se potevamo fare l’amore semi immersi nel mare che al tramonto assumeva il colore del vino, ejpi; oi[nopa povnton.
Il sole oramai era basso ma la ragazza era piena di luce: scintillava sulla sabbia, rifulgeva sopra e dentro e l’acqua salata, brillava nell’aria dell’estate matura. Era rimasta tale quale com’era nell’estate del nostro amore quando aveva ventidue anni nel tempo remoto dei miei ventisette. Mentre dormivo e sognavo io invece avevo superato i cinquanta, forse anche i sessanta, non ricordo.
Mentre scendeva la sera e si allungavano tutte le ombre la ragazza mandava lampi di gioia nell’aria serena e dolce del crepuscolo estivo.
Alle otto la spiaggia orientale era quasi deserta; sulle cabine, sull’umida sabbia, sulle sdraie ripiegate e addossate alle reste degli ombrelloni mietuti, sull’acqua del mare che aveva assunto il colore del vino, si stendevano lunghe le ombre di tutti gli alberghi che si ergevano allineati subito dietro la spiaggia dove li avevano edificati, pazzamente, per quella brama di lucro che già da paecchi anni mortificava l’ambiente
Kaisa aveva un costume verde che metteva in risalto l’abbronzatura, e con le piccole grinze della stoffa evidenziava la compattezza liscissima della pelle di tale femmina umana che sorrideva in armonia con la bellezza della sera estiva e dell’universo artisticamente ordinato.
Quando, passate le otto, sulla rena e nell’acqua non c’era nessuno, mi disse: “vieni, Gianni, andiamo a fare l’amore nel mare”.
La proposta mi piacque. Sentivo che eravamo vicini al culmine della nostra storia e che era il momento di fare le mosse speciali stimolate dalla vetta cui sarebbe seguita la discesa inevitabile poi la caduta nel precipizio del discidium finale.
Pensai pure che fare l’amore in piedi, e nell’acqua del mare, ci avrebbe dato un piacere non solo strano ma anche scomodo e qualche difficoltà; però, se non l’avessi fatto nel mare con quella ragazza superbamente e rapidamente nel fiore, avrei perduto l’occasione che invece bisogna acciuffare siccome è calva di dietro. Entrammo nell’acqua che non era calda, anzi faceva accapponare la pelle: Kaisa si stringeva al mio corpo, forse per trarne calore.
“Hai la pelle d’ oca, non della colorita fanciulla che sei” le dissi per canzonare ed esorcizzare quel freddo. Ridemmo, poi, per scaldarci, nuotammo fino agli scogli antistanti la riva. Fare l’amore lì sopra non si poteva: era troppo scabroso. Dove non si toccava il fondo, non era possibile per mancanza d’appoggio.
Allora tornammo verso la riva del tutto deserta. Il sole, tramontato mezz’ora prima dietro l’alta terrazza di un albergo sovrastante la sabbia, era risorto a destra dell’edificio e aggiungeva un tocco di arancione al mare del resto piuttosto cupo e capace di mantenere segreto, misterico il rito amoroso che poteva iniziarci a nuove fasi del nostro rapporto.
Ci fermammo dove l’acqua arrivava alle spalle, a metà strada tra gli scogli scabri e la riva sabbiosa. Ci togliemmo i costumi.
L’acqua ci dava carezze lascive: senza difficoltà penetrai nella ragazza come un pesce muto e boccheggiante.
Ci stavamo trasfondendo l’uno nell’altro con tanto di trasfigurazione : a un tratto la giovane angiola divenne un grosso pesce e io lo fiocinavo con delicatezza, senza fargli alcun male. Poi ciascuno riprese la propria figura di giovane contento di sé.
Arrivato alla base del fianco sinistro dell’albergo follemente costruito sulla riva marina, il sole, sgonfio di luce e calore, sembrava una palla rossiccia buttata via da un figlio di consumisti cretini, un bambino idiota che stanco di giocarci, l’aveva bucata per spregio e buttata giù dall’alto edificio.
A un tratto l’aria immobile fu squarciata dall’urlo orrendo di un bagnino mezzo vecchio e piuttosto matto che savio, Dante, che venticinque anni prima paternamente mi aveva insegnato a nuotare, ma con il volgere delle stagioni era impazzito e quella sera urlava come un demone della mitologia inferiore contro l’impudicizia marina.
Stavano fissi i suoi occhi di fiamma.
La ragazza studìosa, terrorizzata dal gridare infernale dell’anziano furente, stava per cadere sott’acqua ma evitò l’immersione totale afferrando il laccio di cuoio che lei stessa mi aveva legato al collo come simbolo di fedeltà vincolante,
L’avrei tagliato nel 1974, quando andai a cercarla nell’università dove era diventata assistente e lei si fece negare. Non durai fatica a recidere quel laccio oramai sfilacciato
Nel sogno invece il nostro legame era piuttosto robusto e salvò la ragazza dal cadere sotto la superficie scura del mare.
“Ti amo - disse - Se non ci fossi tu, perderei l’equilibrio”.
“ Io ci sarò, finché tu vorrai restare in piedi con me”
Intanto il demente si avvicinava remando in posizione eretta, traghettatore orrendo di terrificante squallore.
Era molto agitato: tendeva in avanti e piegava indietro le braccia frenetiche. Sembrava dotato di un’energia smisurata, quasi ultraterrena, data l’età. Urlava in dialetto volendo significare che il mare provocato richiede, esige le pene peggiori[1]. Già alquanto vecchio ma cruda e verde era la sua tempra. Stavo per rispondergli. “Caròn, non ti crucciare”. Ma poi lo vidi come un cane alato, vorace, che agita le ali in cerca di preda. Ho sempre avuto paura dei cani che non poche volte mi hanno aggredito per farmi del male.
Quindi cercai di rabbonilo
dicendogli: tu sei più
anziano e certo anche più saggio di me
sebbene anche a me Zeus concesse di capire qualcosa. Avevo citato tre
trimetri giambici di Eschilo, ma lui non se ne accorse e finalmente ci guardò
con miglior labbia e disse: “te t’ha
ragion, ma me nno’ho tort!”.
E’ la logica aperta al contrasto delle Coefore 461:" [Arh" [Arei xumbalei', Divka/ Divka", poi delle Eumenidi: Giustizia si scontrerà con Giustizia: ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia , quella "matriarcale" di Clitennestra contro quella "patrilinea" di Oreste e di Apollo
“ Acsé - risposi - grazie Dante, ci vediamo domani. Sarò composto come quando ero uno squizzo e monachello pudibondo. Ti ricordi?”
Il vecchio sorrise di nuovo. Ci rimettemmo in fretta i costumi e tornammo verso la riva oscurata: il sole era già tramontato del tutto, e le vie per le quali ci dileguammo erano state coperte dall’umida notte.
Mi svegliai di ottimo umore
giovanni ghiselli
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