Il ricevimento del rettore. La superstizione
Martedì 24
luglio c’era il ricevimento del rettore dell’università di Debrecen, la festa
pomeridiana dove nel ’71, nel ’72 e nel ’74 avevo conosciuto le tre donne più
importanti della mia vita prima di Ifigenia.
Con loro
avevo vissuto tre amori mensili quali beni per sempre.
Ma nel 1979
avevo in mani un altro beneficio che credevo perenne, oltretutto già da diversi
mesi, e non volevo sciuparlo ante diem con una nuova relazione pellegrina.
Nella mia testa girava una specie di superstizione secondo la quale dalla mia
fedeltà doveva dipendere quella della mia amante.
Ma la forza
degli istinti scavalca le ipotetiche difese dei senni umani.
Dico
dell’istinto di lei e del mio povero senno fallace nella fattispecie.
Comunque
volevo mettere la prova la mia decisione e forza nel non rompere la fede,
sicché osservavo le ragazze. Tra le altre ne notai una dai capelli biondi e
lunghi. Pensai che fosse tedesca dall’aspetto e dal gruppo nel quale si
trovava. A forza di guardarla, forse pure maniacalmente, venni contraccambiato;
anzi a un tratto l’aurichiomata, invero leggermente opima, protese nella mia
direzione la mano destra con il bicchiere mezzo pieno di “Sangue di toro”
illuminato dal sole e brillante come un rubino. Il gesto poteva
essere rivolto a uno situato dietro di me, ma non mi voltai, siccome
l’ambiente mi aveva donato diversi successi accrescitivi della fiducia in me
stesso. Cercherà Ifigenia di togliermene parte.
Pensai
che il simpatico gesto della ragazza bionda fosse l’eterno richiamo dei sessi
che rende lieta la vita. Lo ricambiai con un sorriso che conteneva un embrione
di bacio, ma non mi avvicinai.
Un poco
più tardi cominciò a calare la sera. Uscii e andai a sedermi su una panchina
addossata a una rientranza della facciata dell’edificio universitario: una
specie di nicchia dove avevo già meditato, riflettuto, ricordato più volte.
Cercavo analogie con il passato e segni per il futuro.
La
fontana antistante, mentre precipitava la notte, si accese di luci multicolori
che resero i vigorosi zampilli simili ai fuochi d’artificio lanciati sopra il
Danubio la sera del 20 agosto a illuminare Buda e Pest la sera di quel giorno
di festa solenne. Il dì seguente le mie finlandesi sarebbero partite.
Questo mi
venne in mente. Poi mi sovvenni di una fantasticheria del dicembre del ’68.
Avevo 24 anni compiuti da poco. Scrivevo dalla mattina a tarda notte per
terminare la tesi e consegnarla entro il 5 febbraio al segretario iracondo
della mia facoltà. Ci lavoravo dal primo settembre senza concedermi una mezza
giornata di pausa. Il 24 luglio del 1979 percorsi all’indietro il fiume del
tempo della mia vita mortale e rividi quella sera remota. Ero a Bologna in una
stanza di una casa del centro storico, non tanto calda. Ero andato a letto da
poco. Guardavo il soffitto segnato da una luce gialla che entrava dagli scuri
solo accostati.
Avevo
scritto diverse pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza
intervallo, e, prima di ricominciare, avrei dovuto dormire ma non oltre le
sette. Però la stanchezza e la paura di non compiere in tempo il lungo lavoro
non mi lasciavano prendere sonno. Allora decisi di non cercare più di dormire e
di confortarmi, con lieti ricordi, della
vita dura e deserta che facevo da mesi. Pensavo a Helena durante la Pasqua di
Praga, a Eva e Katalin le ragazze dell’estate di Debrecen. Quindi cercavo di
antivedere gioie future: dopo la laurea e le prime supplenze nella scuola sarei
tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza e lì avrei
incontrato una ragazza italiana bella, fine, intelligente come una che avevo
visto e sentito parlare in primavera durante le assemblee del movimento
studentesco: si chiamava Dadi, aveva un dente un po’ fuori posto che tuttavia
le donava: era bella, espressiva, luminosa. La sua era una femminilità di
razza. Aveva lunghi capelli biondi, pelle chiara, liscissima, gli occhi di oro
brunito, dolci e vivaci. Sapeva parlare politicamente con maggiore competenza
di me.
Ebbene,
se l’avessi incontrata di nuovo, l’avrei avvicinata, le avrei chiesto di stare
con me, di fare una bambina con me siccome di avventure, sebbene fossi poco più
che agli inizi, ne avevo abbastanza. Questi progetti facevo nel colmo, anzi nel
fondo del gelido e buio inverno di Bologna. Invece, quando, dieci anni più
tardi, rividi la bionda Dadi giunta a fare una supplenza nella scuola dove
insegnavo, mi limitai a salutarla poiché era molto sciupata e, del resto, io
avevo già incontrato Ifigenia.
Ordunque
il 24 luglio del 1979 mentre ero nella mia nicchia a ricordare, vidi passare
l’aurichiomata della festa che a un certo punto si voltò, mi vide e mi rivolse
un sorriso. Per un momento sentii l’impulso, quasi il riflesso condizionato di
avvicinarmi e proporle un giro a Hortobágy come avevo fatto con le tre
finlandesi negli anni passati. Però mi trattenni pensando che quell’estate non
dovevo cercare l’amore ma solo evitare di perderlo. Sicché mi limitai a
rivolgere un sorriso alla bionda un poco opima, senza muovermi né
invitarla ad avvicinarsi. La giovane donna allora si volse di nuovo verso la
fontana e si allontanò diretta ai binari del tram con gli altri tedeschi. Forse
l’avrei fermata se avesse accentuato i miei ricordi amorosi guidando al
pascolo, in finnico costume, un piccolo branco di renne.
giovanni
ghiselli
giovanni
ghiselli Pesaro 5 agosto ore 10, 40
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